Difformità e vizi dell'opera, colpa presunta dell'appaltatore | Bollettino di Legislazione Tecnica
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04/05/2023

Difformità e vizi dell'opera, colpa presunta dell'appaltatore

In tema di garanzia per difformità e vizi dell'opera, la Corte di Cassazione ha affermato che qualora i vizi denunciati risultino provati, si presume la colpa dell'appaltatore, al quale spetta non solo dimostrare di avere adoperato la diligenza e la perizia tecnica dovute, ma anche il fatto specifico, a lui non imputabile, che abbia causato il difetto.

Nel caso di specie si trattava dei lavori di realizzazione di un locale destinato a bar con relativo acquisto e montaggio di una serie di attrezzature. Ultimate le opere, il committente aveva avviato e proseguito l’attività per un mese, ma successivamente denunciava vari difetti e difformità. In sostanza si trattava di stabilire se questi ultimi fossero riconducibili all’erronea realizzazione delle opere o all’uso che ne aveva fatto il committente.

C. Cass. civ. 13/03/2023, n. 7267 ha premesso che l’accettazione dell’opera, anche per facta concludentia, influisce sul riparto dell’onere della prova dei difetti, nel senso che essa compete al committente che abbia accettato le opere senza riserve, mentre grava sull’appaltatore in caso contrario. In altri termini, una volta che l'opera sia stata accettata senza riserve, spetta al committente, che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l'esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate.
Solo finché non vi sia stata accettazione, espressa o tacita, al committente che faccia valere la garanzia è sufficiente la mera allegazione dell'esistenza dei vizi, gravando sulla controparte, quale debitore della prestazione, l'onere di provare di avere regolarmente eseguito l'opera.
Inoltre è stato ricordato che l'art. 1665 c.c., pur non enunciando la nozione di accettazione tacita dell'opera, indica i fatti e i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza dell'accettazione da parte del committente e, in particolare, al comma 4 prevede come presupposto dell'accettazione (da qualificare come tacita) la consegna dell'opera al committente (alla quale è parificabile l'immissione nel possesso) e come fatto concludente la ricezione senza riserve da parte di quest'ultimo anche se non si sia proceduto alla verifica.
L’atto di "consegna" va tuttavia distinto dall’"accettazione":
- la prima costituisce un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente,
- mentre l'accettazione esige che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell'opera, con una manifestazione negoziale che comporta effetti ben determinati, quali l'esonero dell'appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell'opera occulti o non conoscibili con l’ordinaria diligenza, e il conseguente diritto al pagamento del prezzo.

Poste tali premesse, secondo la Suprema Corte, è però decisivo considerare che - a prescindere dall’accettazione - ove sia stata comunque raggiunta la prova dell'esistenza dei vizi, la colpa dell'appaltatore si presume, sicché spetta a quest'ultimo, in base alle regole generali sulla responsabilità del debitore (art. 1218 c.c.), non solo dimostrare di avere adoperato la diligenza e la perizia tecnica dovute, ma anche il fatto specifico, a lui non imputabile, che abbia causato il difetto.
Nel caso di specie, accertata - nel caso concreto - l’esistenza dei difetti delle opere, la prova liberatoria competeva all’appaltatore, non potendo richiedersi al committente di dimostrare che essi non erano dipesi dall’uso del bene, non avendo più alcun rilievo l’accettazione - espressa o tacita - da parte della committente. La carenza di prova - in positivo- della imputabilità dei vizi ad un fattore esterno alla sfera dell’appaltatore non lo esonerava da responsabilità, tanto più che non era stato possibile stabilire che tali difetti erano imputabili alla condotta del committente.

Con particolare riferimento alla difformità dei materiali utilizzati, la Corte ha affermato che ovviamente ciò non poteva ricondursi al modo in cui erano state impiegate le attrezzature da parte del committente. L’appaltatore aveva assunto l’obbligo di realizzare (o procurare) arredi in legno e non in materiale diverso da quello concordato e, non avendolo fatto, era tenuto a rispondere dell’inadempimento. Tale difformità, una volta accertata, non era in alcun modo imputabile alla committente, né era altrimenti giustificabile.
In conclusione, il ricorso è stato accolto con rinvio della causa alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio.

Dalla redazione